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L’impatto del Multifocal Integrated Treatment sulla psicopatologia individuale nell’Anoressia Nervosa in adolescenza

Il più diffuso Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (5a ed., DSM-5, 2013) nella sua recente versione definisce l’Anoressia Nervosa (AN) come un disturbo mentale caratterizzato da un’intensa paura di ingrassare che non si riduce con la perdita di peso, una percezione distorta del peso o della forma del corpo, e un peso corporeo significativamente più basso rispetto a quello previsto per età o altezza. L’età di esordio è prevalentemente in adolescenza e il decorso è spesso cronico, con tassi di mortalità intorno all’1,8% (Yao et al., 2016). L’AN è generalmente in comorbidità con il disturbo d’ansia, con disturbi dell’umore, ossessività, abuso di sostanze, ed è associata ad alti tassi di mortalità e suicidi (Preti et al. 2009; Swanson et al. 2011; Smink et al. 2012; Krug et al. 2013; Bühren et al. 2014). La gestione di questi Disturbi richiede l’intervento di diverse discipline che possano garantire una presa in carico completa e multidisciplinare. Le più recenti Linee Guida  raccomandano l’approccio multidisciplinare integrato come intervento elettivo (APA 2006; NICE 2004) e, dove possibile, l’integrazione di un intervento terapeutico sulla famiglia e sull’individuo. L’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù ha costituito un modello di intervento, il Trattamento Multifocale Integrato (MIT – Zanna et al., 2017) per pazienti affetti da AN che comprende una presa in carico completa del paziente e della famiglia garantendo il monitoraggio neuropsichiatrico, la psicoterapia di gruppo per i genitori, la psicoterapia di gruppo per gli adolescenti, la psicoterapia familiare ed il monitoraggio nutrizionale per la durata di 6 mesi, eventualmente prorogabili. Nello specifico vengono effettuati, ad ogni accesso in Day Hospital a cadenza monosettimanale, incontri di psicoterapia di gruppo per i pazienti e per i loro genitori e monitoraggi clinico-nutrizionali; mensilmente vengono organizzati incontri di psicoterapia familiare e, a cadenza quindicinale, è previsto il monitoraggio neuropsichiatrico. Ogni settimana, inoltre, l’intera equipe si riunisce in una riunione interdisciplinare per discutere i casi e l’andamento clinico di ogni paziente. L’intento dell’equipe dell’ospedale è quello di osservare e valutare l’efficacia del trattamento MIT al fine di migliorarlo e consentire ai pazienti di superare le loro difficoltà. Un primo progetto di ricerca (Zanna et al., 2017) ci ha permesso di osservare dei miglioramenti nella sintomatologia alimentare dei pazienti che hanno partecipato e, con il nuovo progetto, ci si propone di osservare anche i cambiamenti delle famiglie trattate nell’ipotesi che anche loro, e non solo i ragazzi, possano beneficiare dell’intervento.

 

Coordinazione familiare, coparenting e stili interattivi dei pazienti con Disturbo Alimentare restrittivo in infanzia e adolescenza

La letteratura è ormai concorde nel considerare i Disturbi Alimentari (DA) come disturbi ad eziologia multifattoriale che coinvolgono fattori individuali, familiari e socioculturali (Rikani, Choudhry, Choudhry, et al., 2013). Per questo motivo, le attuali linee guida per il trattamento dei DA nei bambini e negli adolescenti raccomandano come intervento elettivo un approccio multidisciplinare integrato (APA, 2006; NICE, 2004), in cui però il coinvolgimento dei genitori rappresenta un elemento fondamentale per un buon esito della terapia (Abbate Daga et al., 2011). La psicoterapia familiare è risultata, infatti, più efficace della psicoterapia individuale nel trattamento di adolescenti con AN, soprattutto quando la storia della malattia è inferiore a 3 anni. Risultati positivi sono stati trovati anche con altre forme di coinvolgimento familiare, come brevi cicli di psicoterapia, terapia multi-familiare o approcci integrati (Lock e Le Grange, 2015; Onnis et al., 2012; Zanna et al., 2017). Ancora scarsi sono gli studi sul trattamento nell’ARFID, ed in particolare sul ruolo del funzionamento familiare nel mantenimento e nella risoluzione del sintomo alimentare. Inoltre, gli studi tendono ad utilizzare strumenti self-report, piuttosto che osservativi, i cui risultati sono spesso influenzati dalle percezioni idealizzate dei membri della famiglia rispetto al proprio funzionamento e dalla desiderabilità sociale. Tuttavia, valutare il funzionamento familiare e co-genitoriale, identificando i modi in cui la famiglia si è riorganizzata intorno al disturbo, appare un elemento importante non solo per migliorare la comprensione diagnostica del contesto entro il quale il disturbo emerge e si consolida, ma anche per promuovere scelte terapeutiche adeguate per ogni singolo paziente e la sua famiglia, affrontando il lavoro terapeutico su quegli aspetti specifici che il nucleo familiare deve potenziare. Tale studio intende seguire questa direzione, approfondendo le potenzialità di una procedura osservativa come il Lausanne Trilogue Play clinico (LTPc; Fivaz-Depeursinge e Corboz-Warnery, 1999; Malagoli Togliatti e Mazzoni, 2006) nella diagnostica clinica familiare e le possibili implicazioni sulla gravità e tipologia del disturbo alimentare.

 

Disponibilità emotiva genitoriale e funzionamento familiare in adolescenti in trattamento per Anoressia Nervosa con il Multifocal Integrated Treatment.

 

Ipotesi di partenza

I recenti approcci più validi alla cura dei disturbi alimentari pongono in evidenza l’importanza del coinvolgimento della famiglia, in particolare dei genitori, all’interno del processo di cura. E’ stato dimostrato quanto la presenza di alcune caratteristiche nell’interazione tra genitori e figli possa favorire o ostacolare il processo di guarigione. In particolare, le ricerche si sono focalizzate sul concetto di disponibilità emotiva dei genitori. Tale costrutto ha  diversi fondamenti teorici: la teoria dell’attaccamento (Ainsworth, Blehar, Waters, & Wall, 1978; Bowlby, 1969, 1973), le teorie delle emozioni (Emde 1980; Mahler, Pine, & Bergman, 1975) e le teorie sistemico-transazionali (Sameroff & Fiese, 2000). La disponibilità emotiva caratterizza il legame della diade genitore-figlio e si riferisce alla capacità di esprimere e condividere un’ampia gamma di affetti, e di provare piacere all’interno di una relazione funzionale ed appagante (Biringen & Easterbrooks, 2012). Se è presente una connessione emotiva all’interno della diade, i partner sono in grado di gioire e godere degli affetti positivi e di modulare gli affetti negativi durante i momenti di sconforto (Barone & Biringen, 2007). Il costrutto è costituito da 4 dimensioni: la sensibilità, ovvero la capacità dell’adulto di essere in sintonia con il bambino, di comprendere e rispondere adeguatamente ai suoi segnali, di essere flessibile, saper negoziare e risolvere i conflitti; la strutturazione, cioè la capacità dell’adulto di sostenere l’apprendimento e l’esplorazione del bambino, senza essere iperstimolante, riuscendo a stabilire limiti e regole; la non intrusività, che si riferisce al grado in cui l’adulto lascia giusto spazio all’iniziativa del bambino, non sostituendosi a lui; la non ostilità, infine, indica la capacità di avere un atteggiamento calmo e paziente verso il bambino, non svalutante o negativo, e di saper gestire rabbia e aggressività. Da parte del bambino, la disponibilità emotiva si misura attraverso la responsività, cioè la capacità di provare piacere nella relazione con l’adulto, mostrandosi disponibile e allo stesso tempo sviluppando una propria autonomia, ed il coinvolgimento, ovvero la capacità di coinvolgere l’adulto e di condividere le attività.    Il costrutto è stato inizialmente studiato con metodi osservativi e nel contesto della relazione genitore-bambino, in particolare della diade madre-bambino, tralasciando la figura paterna e le successive fasi di sviluppo; Lum e Phares (2005), a questo proposito, lo hanno applicato anche all’adolescenza e alla prima età adulta, per indagare la percezione che i ragazzi hanno della disponibilità emotiva sia della madre che del padre in questa fase così delicata del loro sviluppo. Il costrutto sembra essere associato in modo consistente al funzionamento del figlio: a bassi livelli di disponibilità emotiva genitoriale corrispondono maggiori problemi emotivi e comportamentali dei figli (Babore, Candelori e Picconi, 2012). Diversi studi, inoltre, mostrano la percezione di una maggiore disponibilità emotiva materna, mentre il padre è considerato emotivamente meno disponibile soprattutto dalle ragazze adolescenti (Babore et al., 2014; Lieberman, Doyle e Markiewicz, 1999; Renk et al., 2006): questo risultato si ipotizza sia legato al maggiore coinvolgimento del genitore primario (generalmente la madre) piuttosto che ad una differenza individuale tra madre e padre (Lum & Phares, 2005). Il dato rilevante di questi studi è che, nonostante si attesti una generale diminuzione del supporto genitoriale percepito dall’infanzia all’adolescenza, la percezione della disponibilità e vicinanza emotiva del genitore continua ad avere un ruolo decisivo (Babore et al., 2014). La disponibilità emotiva è un concetto che si propone di andare oltre quello di attaccamento, poiché include caratteristiche diadiche, affettive e strutturali della relazione genitore-figlio; inoltre, non si riferisce solo ai momenti di separazione dal genitore, ma pone attenzione soprattutto a tutti quei momenti di condivisione, di gioco e di interazione quotidiana (Saunders et al., 2015). I comportamenti della ragazza affetta da Disturbo Alimentare provocherebbero una serie di emozioni  pianto, ansia, disinteresse, negazione del problema  (Treasure et al.; 2008). Inoltre il coinvolgimento dei genitori ridurrebbe il tasso di drop-out nel trattamento dei disturbi alimentari dal 50% al 15% (Halmi, 2005).  Soggetti con Disturbi Alimentari, in generale, riferiscono che i propri genitori offrivano meno cure, erano meno affettuosi ed empatici, ma significativamente più protettivi e controllanti rispetto al campione non clinico (Attili, Di Pentima & Magnani, 2004). Più recentemente, è stato evidenziato come, in presenza di un membro con D.N.A., il sistema familiare si strutturi su tre schemi di funzionamento: orientato al controllo, orientato al mantenimento del sistema, oppure orientato al conflitto (Darrow, Accurso, Nauman et al., 2017). Nel primo, le pazienti riferiscono una prevalenza di regole e di procedure che organizzano la vita familiare; nel secondo, la percezione è di uno scarso senso di coesione e una bassa espressività, contemporaneamente ad una tendenza a non favorire l’indipendenza e l’assertività. Nel terzo schema, che risulta prevalente nelle diagnosi di AN, le pazienti percepiscono una maggiore ostilità aperta tra i membri. Tuttavia, non è infrequente che a causa di un DNA le relazioni familiari diventino maggiormente conflittuali, soprattutto sui temi riguardanti l’alimentazione e il peso.

 

Obiettivi

Lo studio che si intende realizzare all’interno del Day Hospital del reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, intende indagare se il Multifocal Integrated Treatment per l’anoressia nervosa (Zanna et al., 2017) abbia degli effetti ed eventualmente di che tipo, sulla disponibilità emotiva dei genitori e sul funzionamento familiare.

 

Metodo

Il campione sarà costituito da 30 coppie di genitori selezionate tra le famiglie che hanno una figlia/o in trattamento per disturbo alimentare nel Day Hospital all’interno dell’OPBG. Saranno incluse all’interno del progetto anche le coppie di genitori separati, che frequentano insieme il gruppo dei genitori. Saranno invece escluse le famiglie monogenitoriali o le famiglie in cui un solo genitore parteciperà al trattamento. I test saranno somministrati in 2 momenti: all’inizio del trattamento  (T0), per valutare i valori di partenza e dopo 6 mesi di trattamento (T1), che indicherà i valori finali.

 

Strumenti

Per i pazienti:

Lum Emotional Availability of Parents (LEAP);

Family Assessment Device (FAD);

Parental Bonding Instrument (PBI);